La “Tentatio sancti Antonii”, una leggenda araba del 1341
Molti sono i “testi agiografici sulla vita di sant’Antonio abate, tradotti, rielaborati, riproposti, che seguono un percorso insieme analogo e opposto a quello delle reliquie dell’eremita, traslate dal deserto egiziano a Costantinopoli e poi nel sud della Francia alla fine dell’XI secolo. In tutti questi movimenti, di testi, di reliquie, ma anche di immagini, la figura dell’asceta muta e si rinnova, diventando sia il patrono di una comunità di canonici regolari, in Occidente, sia, in Egitto, in Sira, in Libano, a Cipro e in tutti i possedimenti dell’impero bizantino, il santo eponimo di numerose congregazioni di stampo semi-eremitico. I testi e le leggende – tradotti, abbreviati, riscritti – si intrecciano e si sovrappongono per dipingere l’immagine di uno dei santi più popolari dell’Europa e del bacino mediterraneo” scrive Laura Fenelli1 e aggiunge che non è strano che la Tentatio sancti Antonii, tradotta in latino dall’arabo dal domenicano Alfonso Buenhombre nel 1341, pur essendo “una leggenda che potremmo definire orientale contenga in sé molti elementi legati al culto per l’asceta nell’Occidente cristiano, dall’uso del fuoco per incenerire demoni e nemici, alla presenza del maiale nell’episodio di Barcellona”.
Il contenuto dell’opera.
La prima parte della leggenda, intitolata in alcuni codici Tentatio, e pubblicata dai bollandisti collazionandola principalmente dai codici Monacense 5681 e Harlemense 89, presenta l’eremita sessantacinquenne, mentre coltiva un piccolo orto continuamente devastato da animali. L’episodio potrebbe derivare da un passo della biografia di Atanasio, in cui si dice che Antonio riesce ad allontanare dl suo orto le bestie feroci rivolgendosi a una di esse e invitandola a non infastidirlo mai più. Invece nel testo di Alfonso, gli animali non intendono andarsene; l’eremita chiede allora aiuto a quello che crede essere un cacciatore, mentre è un demone travestito che fabbrica trappole. La leggenda prosegue con l’apparizione di un altro diavolo in forme femminili, che si presenta come una regina in compagnia delle sue ancelle e convince l’eremita a seguirla nella sua città, non solo magnificando le proprie abilità taumaturgiche, ma anche attraversando con un prodigio il fiume. Antonio giunge nella città, acclamato dalla folla; la regina lo conduce nel suo palazzo dove sana, con un’acqua che pare miracolosa, un gruppo di paralitici. L’evento è una spia importante per comprendere quale significato poteva avere alla metà del XIV secolo diffondere in Occidente la leggenda antoniana che Alfonso scrive di aver trovato a Famagosta (Cipro), anche se forse rielaborata e interpolata con episodi provenienti da altre tradizioni: questo è il periodo della grande fioritura dell’ordine dei canonici regolari di sant’Antonio che curava i malati con un liquido dai poteri miracolosi, il Saint Vinage.
Altri elementi rimandano con sicurezza al ruolo di Antonio come patrono non solo degli Antoniani, ma anche di congregazioni religiose orientali, che dall’asceta dicono di aver ottenuto la regola e l’abito; infatti nel testo di Alfonso, Cristo consegna, a testimonianza della sua presenza, un “calecuer”, habitum qui vocatur in arabico calezeut, che nel nome svela la sua matrice linguistica araba e dovrebbe essere analogo a uno scapolare che ha la funzione di allontanare i demoni.
Scoperta la natura demoniaca della donna, l’eremita riesce a sconfiggerla dopo una lunga battaglia, e nelle parole che Cristo rivolge ad Antonio per premiare il suo sforzo, riconoscendo il suo ruolo taumaturgico, è difficile non vedere ancora una volta un riferimento all’attività dell’ordine Antoniano e al “fuoco”. Tutti i demoni che Antonio incontra nel testo di Alfonso tendono a trasformarsi in colonne di fuoco. Difficile pensare che il ruolo di Antonio nello sconfiggere e nel domare il fuoco possa essere casuale.
Nella seconda parte (dal cap. 27), diventa ancora più evidente il diverso ruolo di Antonio in Oriente e in Occidente.
Si descrive il miracoloso viaggio di Antonio in Occidente, allo scopo di far convertire alla fede cristiana un non meglio precisato re di Barcellona, la cui famiglia è posseduta dai demoni. Antonio raggiunge la città in incognito, trasportato da una nube, mostra i suoi poteri grazie a un primo prodigio e poi risana la famiglia reale. L’elemento più interessante è il primo miracolo: la guarigione di un porcellino cieco e claudicante che una scrofa ha deposto ai suoi piedi (cap. 36). L’episodio assume un significato importante nel contesto della leggenda del Santo eremita: nessun elemento della prima biografia di Atanasio collega Antonio all’animale, che compare invece come suo attributo iconografico dalla metà del Duecento.
Le ragioni di questa bizzarra iconografia vanno ricercate nelle città europee sedi dei priorati antoniani, perché i canonici regolari di sant’Antonio erano soliti allevare maiali nelle città in cui si stabilivano.
Scrive ancora Laura Fenelli: “La composizione di Alfonso Buenhombre – o il suo presunto originale in arabo – è una delle prime attestazioni, insieme a un manoscritto degli anni trenta del Trecento, di come la strana iconografia di un eremita associato a un porcellino, nata per ragioni strettamente economiche, legate alla vita dell’ordine che aveva scelto Antonio come patrono e ne deteneva le reliquie, abbia portato alla produzione di nuovi testi e leggende in cui il maiale appare come beneficiario del potere taumaturgico dell’eremita o, come nel caso del manoscritto bolognese, suo accompagnatore celeste nella lotta contro il demonio”.
1. FENELLI- Leggenda araba SAAA.pdf
Il testo latino della leggenda fu pubblicato, confrontando diversi manoscritti, in Analecta Bollandiana, tomo LX, 1942, pp. 143-212. Leggenda araba SAA-AnalBolland_1942.pdf
TRADUZIONE IN ITALIANO della “Leggenda” a cura di Angela Crosta
LEGGENDA ARABA su S. Antonio – traduz-Crosta-web.pdf
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Immagine in alto “S. Antonio incontra la regina-demonessa”: miniatura di Robert Favier dal codice pergamenaceo del 1431-37, “Vita e opere di sant’Antonio abate” commissionato da Jean de Montchenu (1378-1459), rettore di S. Antonio di Ranverso, per il papa Eugenio IV che poi lo donò alla famiglia Medici.
Conservato nella Biblioteca Mediceo Laurenziana
Facsimile riprodotto da:
https://www.facsimilefinder.com/facsimiles/saint-anthony-life-facsimile#&gid=1&pid=11