VENTIMIGLIA (Im). Sant’Antonio Abate e le sue radici ventimigliesi.

La devozione per Sant’Antonio Abate ha radici profonde a Ventimiglia. Ha ben ragione il prof. Durante nel ricordarlo.
Non si deve dimenticare l’intitolazione della chiesa delle Canonichesse Lateranensi, costruita sulle rovine del palazzo dei Conti di Ventimiglia, in pieno Seicento, proprio a questo Santo e dunque la profonda tradizione che legava lo stesso a Ventimiglia.
Dalla Chiesa proviene un piccolo dipinto a olio,  ora in proprietà comunale, che permette di passare immediatamente alla considerazione della devozione locale.

La popolarità del Santo è tale che è difficile separare la leggenda dalla realtà.
Non è neppure mancato l’inserimento della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, cosa che ha ravvivato la devozione tardomedievale.
In relazione a Ventimiglia sono illuminanti le testimonianze di Gerolamo Rossi, il quale, citando il Gioffredo ed un’opera agiografica, il Compendium Antonianae Historiae, dà ampio spazio alla vicenda leggendaria dell’origine ventimigliese del santo.
Secondo la pia tradizione, infatti, il padre di Antonio, un alessandrino di nome Beabasso, sarebbe giunto a Ventimiglia per motivi commerciali nel 253 (secondo la cronologia ufficiale i limiti della vita del santo sarebbero tra il 250 ed il 17 gennaio del 356). Qui avrebbe sposato una ventimigliese, di nome Guitta, Gietta o Ghitta. Unione dalla quale sarebbe nato Antonio. Già qui ci sono incoerenze, per il nome germanico della madre. E si tenga conto che la santità di Antonio è legata invece all’eremitaggio orientale, solitario.
Sempre secondo la leggenda, la madre ventimigliese sarebbe stata di nobili origini. I conti di Ventimiglia sostenevano di appartenere alla discendenza del santo. Il Rossi cita i pellegrinaggi di alcuni Ventimiglia a Vienne nel Delfinato, ove si conservano le reliquie del santo. Lo stesso Rossi, in un altro scritto inedito, che comunque ha fornito materia alle pubblicazioni, ricorda la presenza della presunta culla del santo nel castello di Ventimiglia, preziosissima reliquia. La memoria devozionale rimane anche dopo che I Ventimiglia lasciano la città, tanto che la comunità può portare in processione il baldacchino sopra le reliquie del santo, diritto che spetta ai Ventimigliesi eventualmente presenti a Vienne.

Nel corso del Seicento ci si riannoda a questa tradizione quando si deve costruire il convento femminile (fig.) sui ruderi del castello dei Ventimiglia, ove già probabilmente sorgeva un sacello dedicato al santo. Santo del quale non si può non ricordarsi all’atto della dedica della chiesa. In fondo ci si riferiva ad un personaggio la cui esperienza eremitica non poteva non essere esemplare per le suore ivi raccolte.
Si deve proprio ai “principali” ventimigliesi un’importante iniziativa a sostegno della devozione per il Antonio, iniziativa peraltro limitata ai settori più elevati della società cittadina. Sono Antonio Porro, finora noto per aver ceduto gli spazi per la costruzione dell’oratorio detto “dei Neri” sull’attuale via Garibaldi, e Gio Girolamo Lanteri, i quali affidano la redazione di un testo agiografico su Sant’Antonio Abate al Padre Teofilo Raynaudi, che il Rossi dice originario di Sospel.
Il Raynaudi pubblica allora a Roma nel 1648, i Symbola Antoniana. La Biblioteca Aprosiana conserva ben due copie di questo volumetto, dei quali uno proviene dal convento dell’Annunziata e l’altro è stato donato alla Biblioteca nel 1653 dall’ Eccellentissimo cittadino ventimigliese Domenico Antonio Sismondi. L’opera è dedicata, tramite i committenti, al vescovo Lorenzo Gavotti. Si tratta di un compendio che riferisce della vita e dei valori sostenuti dall’esperienza religiosa del santo, con tutte le sue vicende leggendarie legate alla città, inclusi miracoli come la guarigione del figlio de re di Barcellona. Ecco dunque la figura del santo guaritore, con il maiale sempre a fianco, da cui trarre il sego per curare il “fuoco di Sant’Antonio”.

Link per il quadro: http://www.ventimiglia.biz

https://www.rivieratime.news/ventimiglia-la-storia-del-quadro-di-santantonio-abate-e-della-chiesa-a-lui-dedicata/

https://vimeo.com/502152456

Fruibilità:
Nel quadro di proprietà ora del Comune di Ventimiglia non a caso Antonio Abate è rappresentato vicino ad un bambino, in relazione forse a fatti notissimi nella fase di redazione dell’opera, nel XVII secolo, con una veduta della zona della Marina.

 

 

Chiesa di Sant’Antonio abate, via Porta Nuova, 1
https://goo.gl/maps/eMR2VwZJ1YJh4ZnW6
Una bella chiesa in stile barocco ligure.
Sull’altare un quadro con sant’Antonio, (foto 2 in basso).

Info sulla Chiesa:
https://vimeo.com/500981724

 

Autore: Alessandro Giacobbe, 21 Gennaio 2011

Rilevatore: Feliciano Della Mora, Ersilio Teifreto

Data ultima verifica sul campo: 24/06/2012

 

TORRITA DI SIENA (Si). Chiesa delle Ss. Flora e Lucilla; polittico “Adorazione dei pastori, con sant’Antonio abate”

 

La Chiesa di Santa Flora e Lucilla, insieme al Palazzo Comunale, costituiscono il lato più antico della Piazza entro le mura del Castello di Torrita.

 

Polittico attribuito a Bartolo di Fredi (Siena 1330 ca. – San Gimignano ? 1410), XIV sec., Adorazione dei pastori, Tavola cm. 187 x 183.
Il polittico, costituito in origine da più scomparti, come dimostrano anche le tracce dei cavicchi visibili sui bordi esterni delle tavole laterali, si compone oggi di solo tre sezioni: nella scena centrale campeggia una capanna, aperta sui quattro lati, dove è situato il Gesù Bambino, che suggerisce una certa rigidità imposta anche dalle fasce che lo avvolgono. Disposto in una spoglia mangiatoia, con alle spalle il bue e l’asino, è attorniato da vari personaggi in adorazione.
La Madonna, ritratta con le mani incrociate sul petto è affiancata da san Giuseppe genuflesso in preghiera che indossa un abito rosso rivestito internamente di giallo.
Altri due soggetti sulla destra assistono in adorazione il Bambino; si tratta di una pastore in compagnia di un cane con lo sguardo rivolto in alto verso la cometa, situata sulla tettoia della capanna, ed un’altra figura maschile genuflessa sulla destra della capanna che ricorderebbe un frate francescano.
Bartolo riesce a creare un ambiente sereno con i volti dei soggetti che esprimono un senso di devozione e stupore non senza qualche accenno di pietismo.
E’ evidente la sproporzione che c’è tra la Vergine e gli altri soggetti della scena. Sul registro superiore emergono dalle nuvole otto angioletti che si stagliano sul fondo dorato.
Sullo scomparto destro è visibile la figura di Sant’Antonio abate, riconoscibile per gli immancabili attributi del bastone a forma di tau e soprattutto del maiale, considerato un animale sacro perché allevato dall’ordine religioso degli Ospedalieri Antoniani al fine di curare la malattia detta fuoco di Sant’Antonio o male degli ardenti.
Particolare interessante del polittico è costituito dalla coppia di maiali ai piedi di Sant’Antonio, rappresentati con la cintura bianca, caratteristica tipica della Cinta Senese, razza suina autoctona oggi a rischio estinzione.
Nel pannello di sinistra è rappresentato Sant’Agostino con indosso i solenni paramenti vescovili nell’atto di benedire, mentre con la mano sinistra stringe il pastorale.
Entrambi i Santi si stagliano su un fondo oro decorato a punzone.
E’ un’opera molto discussa dalla critica, la cui attribuzione è contesa tra due artisti affini come Bartolo Di Fredi e Taddeo Di Bartolo, ritenuti erroneamente legati da un rapporto di parentela (padre-figlio) dal Vasari.
La paternità di Bartolo Di Fredi sembrerebbe essere confortata e sostenuta da gran parte degli studiosi.
Fu uno dei pittori toscani più operosi, attivi nella seconda metà del sec. XIV. Le numerose opere svelano tuttavia l’intrinseca debolezza del suo linguaggio artistico, ridotto a una sigla eclettica, derivante da Simone Martini, dai fratelli Lorenzetti e da Niccolò Tegliacci, di cui forse fu scolaro. Il primo documento che lo ricorda è del 1353, associato con Andrea Vanni; la sua opera più celebre, il ciclo di affreschi dell’Antico Testamento nella collegiata di San Gimignano, è del 1367.
Produsse un gran numero di pale d’altare ed affreschi. Collaborò con altri artisti in cicli affrescati, dipinti su tavola e sculture policrome. Molte delle sue più importanti opere furono eseguite insieme al figlio, Andrea di Bartolo.
Partendo dai resoconti più antichi, l’opera, dopo un accenno dell’erudito De Angelis (1821), viene inventariata dal Brogi (1897) come dipinto alla “Maniera di Taddeo di Bartolo”. Si passa quindi ad analisi più puntuali dal punto di vista scientifico a partire dal Perkins fino a Berenson (1932). Quest’ultimo, nei suoi “Indici”, ad vocem Torrita, parlando del dipinto lo attribuisce a “Bartolo Maestro Fredi”.
L’erudito locale G.M. Gasparri, su una copia del testo Notizie istorico critiche di Fra Giacomo da Torrita del De Angelis, scrive a mano un’annotazione, mutuata dal critico Cesare Brandi, in cui si legge che l’opera “è della scuola di Taddeo di Bartolo anzi, dice lo studioso senese, proprio di Taddeo”. Il Brandi la mette in relazione temporale con l’Adorazione dei Pastori conservata al Museo di Beziers in Francia; quella francese è difatti ritenuta una replica del polittico torritese. Gli studi più recenti tendono invece a rimarcare l’attribuzione a Bartolo di Fredi.
Le figure sono rese con scarsa dovizia di particolari. Bartolo le semplifica conferendo più importanza al dato volumetrico. Tale aspetto si riscontra agevolmente nei panneggi diventati più pesanti con i corpi dei protagonisti ancora più tangibili.
La Madonna si discosta dalle altre versioni giovanili. Il mantello si chiude cadente e pesante sulle spalle, i gomiti contribuiscono ad alzarlo agevolando l’osservazione del volto. La veste si caratterizza quasi come un guscio chiuso.
I santi degli scomparti laterali sono evidentemente improntati sul dato plastico come del resto i soggetti dello scomparto centrale. Bartolo li raffigura in piedi sul basamento e li colloca entro uno spazio chiuso quasi si trattasse di statue definite in una nicchia.
La critica è a tutt’oggi divisa sulla questione della datazione della tavola, mentre sembra trovare un parere unanime l’assegnazione a Bartolo di Fredi.
Stando a quanto rilevato dal Freuler (1994) la cronologia dell’opera di Santa Flora oscillerebbe in un lasso temporale che va dal 1366 al 1388, coincidente con il momento di passaggio dalla produzione giovanile alla prima maturità. Secondo lo stesso autore, l’opera sarebbe stata trasferita a Torrita fra il 1695 ed il 1699 dall’altare della Cappella del Parto presso la Chiesa di Sant’Agostino di Montalcino, fatta costruire dalla nobildonna Petra Cacciati e dove l’opera era collocata originariamente. A supporto di tale tesi, in un testamento del 1463, la nobildonna torritese, Andreoccia di Bandino, indicò il convento degli agostiniani di Siena come erede universale dei suoi beni. Nelle clausole dell’atto notarile la stessa dichiarò di voler essere seppellita in Santa Flora assieme ai familiari, oltre alla volontà di fare erigere una cappella o in Sant’Agostino a Siena o nella stessa chiesa paesana…

Descrizione tratta da Niccolò Malacarne, in La Chiesa delle Ss. Flora e Lucilla tra Storia ed Arte, Associazione Culturale Villa Classiva, Torrita di Siena, 2010, pp. 95.

 

Note storiche:

Chiesa romanica ad una sola navata, Santa Flora e Lucilla è l’edificio di maggiore pregio architettonico. Eretta nel XIII secolo, è caratterizzata da una facciata a mattoni, ricca di decorazioni in laterizio e da un portale leggermente strombato. Oltre ad alcuni frammenti di affreschi affiorati durante gli ultimi restauri, la chiesa conserva veri gioielli di arte pittorica della Scuola Fiorentina del 400, di Benvenuto di Giovanni, di Taddeo di Bartolo e di Bartolo di Fredi.
Anticamente questa chiesa era in gran parte affrescata e tracce sono visibili sopra il coro, dove sono state riportate in superficie un’Assunta ed un’Immacolata attribuite alla scuola del Sodoma.
Il tempio conserva la lunetta marmorea a bassorilievo “Il sangue del Redentore” attribuita a Donatello (1430). Non si conosce la collocazione originale dell’opera che nel XIX secolo venne spostata dall’esterno della Chiesa della Madonna delle Nevi al vestibolo dell’Ospedale di Maestri. Si ipotizza che il bassorilievo fosse in origine parte di un tabernacolo composito.
Nell’opera “La Pittura Senese nel Rinascimento, 1420 – 1500”, raccolta edita dal Monte dei Paschi di Siena nel 1989, si trova una critica di Keith Christiansen che riporta:  “… L’ipotesi più probabile è che il Donatello avesse creato un rilievo precisamente di questo tipo durante la sua permanenza a Siena. L’opera viene datata attorno agli anni trenta del Quattrocento, ed è stata associata al tabernacolo di Donatello per San Pietro a Roma…”

 

Bibliografia:
Niccolò Malacarne, in La Chiesa delle Ss. Flora e Lucilla tra Storia ed Arte, Associazione Culturale Villa Classiva, Torrita di Siena, 2010, pp. 95.

Link:  http://www.comune.torrita.siena.it

Note:
La scheda si è potuta presentare grazie alla collaborazione del signor Paolo Pesenti di Torrita di Siena.

Rilevatore: Feliciano Della Mora

Data ultima verifica sul campo: 30-05-2012

GAMBASCA (Cn), loc. Furnas. pilone con affresco raffigurante sant’Antonio abate

PILONE VOTIVO – Lungo Via Comba Nari – Località Furnas

Struttura in pietra, con tetto in lose, affrescata sia internamente che esternamente.
Sulle pareti esterne sono visibili dipinti raffiguranti san Chiaffredo e sant’Antonio Abate ad opera di un pittore al momento non identificato.
Sulla facciata è visibile un motivo decorativo floreale che contorna la nicchia, anch’essa riccamente affrescata.

 

Rilevatore: Ersilio Teifreto

Data ultima verifica sul campo: 01/05/2012

 

GENOLA (Cn). Loc. San Ciriaco. Cascina Damiano, affresco raffigurante la Madonna con il Bambino e sant’Antonio abate

Loc. San Ciriaco, cascina Damiano.

Affresco murale cinquecentesco che si trova sulla facciata della cascina denominata Damiano, ubicata in località San Ciriaco.
Ritrae la Madonna con il Bambino e Sant’Antonio abate.

 

Rilevatore: Ersilio Teifreto

Data ultima verifica sul campo: 30/04/2012

 

NOVALESA (To). Cappella di Sant’Antonio Abate

La cappella di Sant’Antonio sorge isolata nell’omonima località a Novalesa in Valle di Susa. Via Sant’Antonio, 13.
https://goo.gl/maps/PSonJX9cw8qNPTkA8

La cappella è citata per la prima volta nel 1598, anno in cui fu beneficiata di un legato.
La cappella fu distrutta nel 1884 a causa di una valanga e venne ricostruita nel 1889 sul medesimo sito.
La cappella, nuovamente distrutta da una valanga, fu ricostruita su di un sito diverso rispetto al precedente, nel 1892

La facciata, intonacata, è profilata a capanna e conclusa agli spigoli da paraste; la porta è sovrastata da una finestrina a mezzaluna. Le due falde del tetto sopravanzano il filo della facciata a proteggerne l’ingresso. L’interno si sviluppa secondo uno schema a navata unica conclusa da abside semicircolare. Recentemente restaurata.

 

 

Link:
http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/schedaca.jsp?sercd=8606

 

Rilevatore: Ersilio Teifreto

Data ultima verifica sul campo: 30/04/2012 – aggiornamento 14 dicembre 2021