Stefania COLAFRANCESCHI, “Sant’Antuòne, Sant’Antuone, lu nemiche de lu demonie”

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In: LA PIVA DAL CARNER, opuscolo rudimentale di comunicazione a 361°, Montecchio Emilia, gennaio 2015.
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Paola BUZI. Shenute: il monaco dimenticato.

Note:
Quando l’età classica aveva ormai ceduto il passo a quella tardo-antica e gran parte di ciò che era stato l’impero di Roma si avviava verso una fase di seppur momentaneo torpore culturale, l’Egitto doveva ancora apparire come un Paese intellettualmente in fermento. Chiunque fosse sbarcato per la prima volta ad Alessandria avrebbe certo percepito qualche segno di stanchezza, qualche piccola ruga nell’aspetto di quella che, per secoli, era stata la più bella e la più ricca metropoli del Mediterraneo, ma avrebbe anche colto sostanzialmente immutata la sua monumentalità, fatta di ampie strade lastricate, di marmi policromi, di innumerevoli edifici termali e di un gran numero di nuove chiese, ostentatamente erette al posto dei vecchi templi pagani.
Scomparsi i suoi vanti più celebri, il Museo e la Biblioteca, o forse quest’ultima solo significativamente ridotta nel numero dei suoi volumi – se si dà credito a chi ritiene che essa venne completamente distrutta solo al tempo dell’invasione araba –, Alessandria rimaneva comunque una fucina di teologi e filologi, scienziati e letterati, molti dei quali ormai cristianizzati.
Una scuola di filosofia
Lo prova l’enorme fortuna, tra il III e il V secolo, della «Scuola Catechetica», una sorta di ateneo ante litteram, nel quale si impartivano lezioni di alta formazione filosofica e teologica. Diretta da Clemente Alessandrino e Panteno prima, e da Origene poi, la Scuola propugnava l’interpretazione allegorica delle Sacre Scritture, sulla scia di quanto, già secoli prima, aveva suggerito Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C.), un filosofo neoplatonico di origine ebraica e di lingua greca, noto per aver preso parte alla delegazione che, nel 40 d.C., chiese a Caligola di concedere agli Ebrei di Alessandria il diritto di rispettare le leggi dei propri padri, senza essere costretti a venerare l’imperatore.
Ma la cultura egiziana di età tardo-antica non era affatto di stampo esclusivamente cristiano.
L’ambiente classico, «pagano», continuò per qualche tempo a essere rappresentato da personaggi di spicco, come la celebre Ipazia (370-415 d.C.), matematica e filosofa, figlia dell’ultimo direttore del Museo, Teone, che fu a sua volta geometra e filosofo. Lo storico ecclesiastico Filostorgio (368 circa-dopo il 430) narra che Ipazia, capo della locale accademia neoplatonica, che aveva sede nel Serapeo, «introdusse molti alle scienze matematiche», mentre Socrate Scolastico precisa che «giunse a un tale grado di cultura che superò di gran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei».
Nasce un’epoca
L’atmosfera culturale che ancora si respirava ad Alessandria, e in tutto il resto d’Egitto, faceva dunque sí che le lezioni del cristiano Origene attrassero anche numerosi pagani, e che la pagana Ipazia potesse vantare tra i suoi allievi non pochi cristiani, tra i quali Sinesio, futuro vescovo di Cirene.
Ma si trattava di un equilibrio assai precario, destinato ad avere vita breve, poiché di lí a poco, anche a seguito dell’emanazione del terzo editto di Teodosio (391 d.C.), l’élite culturale cristiana avrebbe preso il sopravvento e avrebbe sentito il bisogno di eliminare del tutto ciò che restava dell’antica religione, determinando la nascita di quella fase della storia egiziana che comunemente, e non del tutto propriamente, viene definita «periodo copto».
Il termine qubt/qibt (da cui il nostro «copto») deriva dalla deformazione del greco aigyptios («egiziano»), e fu coniato dagli Arabi, nel VII secolo, per distinguere gli abitanti autoctoni dalla componente etnica greco-romana. Solo molto più tardi il termine acquisì un’accezione religiosa. Fino ad allora, i membri della comunità cristiana egiziana si sono autodesignati con vari appellativi, tra cui quello di «teodosiani» o, meno frequentemente, di «giacobiti», dal nome del patriarca Teodosio o da quello del suo collaboratore Giacomo Baradeo, vescovo di Edessa, che li avevano riorganizzati dopo la crisi del Concilio di Calcedonia (451 d.C.), in seguito al quale la Chiesa egiziana, con quella siriana, aveva preso le distanze dalla maggioranza delle altre Chiese.
Per tale ragione la Chiesa egiziana suole anche essere definita come anti-calcedonense, in contrapposizione a quella calcedonense o melchita (dal termine melk, «re»), ossia fedele alla posizione del patriarcato costantinopolitano, rispettoso delle scelte del Concilio del 451. Quando si vuole far riferimento ai fenomeni storici, culturali e religiosi che hanno caratterizzato la Valle del Nilo tra il IV e l’VIII secolo risulta dunque assai più corretto parlare di Egitto cristiano o tardo-antico, piuttosto che copto.
Pur con queste premesse, il trascorrere dei secoli ha tuttavia lentamente smussato tali iniziali valenze terminologiche e, in un momento non facilmente determinabile, il termine «copto» è infine entrato nell’uso comune, sia in Egitto, sia in Occidente, per designare la minoranza cristiana egiziana, contrapposta alla maggioranza dei nuovi dominatori islamici.
Il ruolo della comunità giudaica
La diffusione del cristianesimo in Egitto deve essere stata estremamente precoce, tanto da spingere la Chiesa egiziana a rivendicare con orgoglio la sua fondazione a opera di Marco Evangelista. La penuria di notizie certe circa i primi due secoli rende però inattendibile tale affermazione, tanto che lo storico e vescovo Eusebio di Cesarea (prima metà del IV secolo), nella sua Historia Ecclesiastica, non può fornirne che pochi ragguagli, limitandosi essenzialmente a riportare la lista dei patriarchi che si succedettero in quel torno di tempo. Certamente Alessandria, con la sua folta e culturalmente vivace comunità giudaica (si pensi alla già menzionata figura di Filone e alla traduzione della Septuaginta, la cosiddetta «Bibbia dei Settanta»), dovette svolgere, già dal I secolo, un ruolo essenziale nella diffusione della nuova religione.
La Chiesa copta sviluppò rapidamente i suoi tratti caratteristici, tra cui una forte rigidità della gerarchia ecclesiastica, il cui controllo era interamente concentrato nella figura dell’arcivescovo di Alessandria, il patriarca, a cui spettava, in modo esclusivo, la scelta dei vescovi da distribuire su tutto il territorio egiziano.
Il copto: una lingua nuova
Forse già dalla metà del II secolo d.C., inoltre, l’Egitto cristiano cominciò a sentire l’esigenza di un nuovo strumento linguistico che si affiancasse al greco, che era da tempo la lingua dominante, e al demotico, ormai fortemente depauperato. Nacque così il copto, che, combinando l’alfabeto greco (con l’aggiunta di almeno sei ulteriori segni atti a esprimere suoni che il greco non prevedeva), con la grammatica egiziana e una sintassi tratta in parti quasi uguali dall’egiziano e dal greco, forniva all’Egitto una lingua in grado di sintetizzare la cultura ellenistica e quella autoctona. Il copto si presentava, dunque, come una lingua pianificata, elaborata scientemente e con un intento preciso, perfettamente chiara, fin da subito, nelle sue regole grammaticali e sintattiche, sebbene ci si debba per il momento rassegnare all’impossibilità di dedurre quale ambiente sia stato responsabile della sua creazione. Contemporaneamente, la Chiesa copta andava maturando un altro elemento peculiare: quello della nascita del movimento monastico organizzato, che, seppure destinato a non essere esclusivo dell’Egitto, in esso ebbe la sua origine ed elaborò i suoi tratti distintivi, esercitando nel tempo un ruolo sempre maggiore nelle vicende del patriarcato alessandrino, al punto che dal VII secolo non vi fu patriarca che non fosse anche monaco.
Non è facile collocare con esattezza le origini del movimento monastico egiziano e l’ambiente da cui esso prese le mosse; ma si può ragionevolmente sostenere che la sua diffusione risalga al periodo di pace che si instaurò all’indomani della «grande persecuzione» di Diocleziano, per i Copti l’imperatore empio per eccellenza, cioè all’inizio del IV secolo.
Il «nerbo della Chiesa»
In realtà, già prima di tale data non mancarono casi di personaggi che dedicarono la propria vita all’anacoretismo (cioè alla dottrina degli anacoreti, individui che sceglievano di vivere in solitudine, dedicandosi alla contemplazione e alle pratiche ascetiche, n.d.r.). E se il già nominato Eusebio di Cesarea non fa alcuna menzione del fenomeno monastico, solo un secolo più tardi Sozomeno, Rufino e Socrate Scolastico non esitano a definirlo come il nerbo della Chiesa egiziana.
Una delle fonti primarie per la ricostruzione dei primordi del monachesimo è la Vita di Antonio, un’opera biografico-celebrativa scritta da Atanasio, patriarca di Alessandria, probabilmente l’anno successivo alla morte del monaco.
Antonio, ritiratosi nel deserto per condurre una vita di solitaria preghiera, viene considerato il «padre» del monachesimo egiziano, sebbene nella stessa opera che ne narra la vita si legga che egli divenne guida spirituale di «coloro che erano già monaci», lasciando presumere che il fenomeno fosse già in qualche modo piuttosto diffuso. Antonio viene anche descritto come l’emblema della genuinità e della semplicità del cristianesimo delle origini e appare totalmente disinteressato alle problematiche dell’organizzazione di una vita comunitaria.
Siamo dunque ancora in una fase di monachesimo non «organizzato», quando i monaci erano anacoreti girovaghi, in cerca di un luogo solitario in cui vivere, desiderosi di dedicarsi esclusivamente alla preghiera. Il successo del fenomeno monastico, tuttavia, fu tale che in breve tempo «il deserto divenne una città di monaci» (Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio, 14), un insieme di eremi e di celle, spesso ricavati in grotte, vecchie tombe o templi abbandonati, in cui vivevano centinaia, se non migliaia, di eremiti. Nonostante la semplicità e l’ingenuità che si suole attribuire a questi personaggi, le fonti che ne tramandano la vita dimostrano spesso il contrario.
Antonio, per esempio, ben conosceva le questioni dogmatiche che nel IV secolo scuotevano la Chiesa. In particolare, dalle Lettere attribuite allo stesso eremita emerge una chiara polemica contro l’eresia di Ario che si ostinava «a dire cose sconvenienti circa l’Unigenito, cioè diede un inizio a Colui che non ha inizio e diede una fine all’indicibile, diede un movimento all’immobile».
Solo alla generazione successiva a quella di Antonio vanno però attribuiti i primi tentativi di elaborazione di una vera e propria vita comunitaria, come dimostrano i resti architettonici degli articolati insediamenti monastici di Kellia e di Nitria, nel Delta sud-occidentale, e di Sceti, poco piú a sud, composti da un folto gruppo di monaci spiritualmente e organizzativamente coordinati da una guida: l’archimandrita.
Si sbaglierebbe, tuttavia, se si volesse tentare di paragonare queste comunità a una moderna struttura monastica. I monaci di Nitria e Kellia continuavano a essere sostanzialmente anacoreti, vivendo e pregando separatamente gli uni dagli altri e limitando i momenti di incontro a poche specifiche occasioni, come le riunioni di culto. La struttura architettonica dei due insediamenti rispettava tale impostazione di vita, riservando alla chiesa, al refettorio e ai magazzini il ruolo di perno urbanistico e distribuendo le celle dei monaci attorno a essi, così da assicurare la privacy necessaria a una vita di preghiera solitaria.
Un fenomeno simile a quello di Nitria e Kellia si verificò contemporaneamente anche in Medio Egitto, dove, nell’area compresa tra Menfi e Shmun (la greca Hermopolis e la moderna el-Ashmunein), si erano da tempo insediate numerose piccole comunità, il cui carattere anacoretico era ancora molto evidente.
La tradizione letteraria copta tramanda i nomi di numerosi personaggi di spicco di questo ambiente, tutti inquadrabili entro il IV secolo e tutti completamente ignorati dalla tradizione letteraria cristiana greco-latina: si tratta, tra gli altri, di Paolo di Tamma, Apollo di Bawit, Phib, Anup e Aphu.
La fama di santità dei monaci egiziani varcò molto presto i confini dell’Egitto e in breve attirò pellegrini provenienti da tutto il mondo greco e romano. È il caso del gallo Giovanni Cassiano, che nel suo De Institutis Coenobiorum narra del suo soggiorno tra gli anacoreti che vivevano nel Delta; o di Palladio, originario dell’Anatolia centrale, che nell’Historia Lausiaca descrive proprio le comunità monastiche di Nitria e Kellia.
La Regola e il cenobio
Contemporaneamente al fiorire delle comunità semi-anacoretiche del Basso e del Medio Egitto, nella Tebaide si verificava un fenomeno analogo, ma caratterizzato da significative peculiarità: attorno alla figura di Pacomio (292-348 d.C.) si formò la prima comunità realmente e totalmente cenobitica, la cui vita comune era scandita da una Regola, la prima a essere mai stata scritta, redatta inizialmente in greco, ma poi tradotta in copto dallo stesso Pacomio. Era la nascita del monachesimo organizzato.
La Regola di Pacomio, del resto, esprime chiaramente la rigida organizzazione della vita comunitaria:
«[…] 139. Al nuovo arrivato che entra in monastero verrà insegnato innanzitutto ciò che deve osservare e se, una volta istruito, avrà accettato ogni cosa, gli si daranno da imparare venti salmi o due lettere dell’Apostolo o un’altra parte della Scrittura. Se non saprà leggere, alle ore prima, terza e sesta, andrà da chi lo può istruire e che ne ha ricevuto l’incarico, starà dinanzi a lui e imparerà con la massima attenzione e con ogni gratitudine. In seguito gli si scriveranno l’alfabeto, le sillabe, i verbi e i nomi e, anche se non vuole, sarà costretto a leggere. 140. E non vi sarà assolutamente nessuno in monastero che non impari a leggere e non sappia a memoria qualcosa delle Scritture: come minimo, il Nuovo Testamento e il Salterio.
141. Nessuno cerchi pretesti per non andare alla sinassi (riunione di culto, n.d.A.) a cantare i salmi e a pregare.
142. E sia che si trovi in barca o nel monastero o nei campi o in viaggio non trascuri il tempo della preghiera e del cantare i salmi».
La principale caratteristica dei monaci pacomiani è che si sentivano un gruppo unitario sotto il comando di un capo, quasi una sorta di esercito. E anche quando, a seguito del successo di questa nuova «formula» di monachesimo, l’ordine si espanse, vedendo il proliferare di monasteri pacomiani dall’estremo sud dell’Egitto fino al Delta, essi continuarono a obbedire all’indiscussa autorità di Pacomio e dei suoi successori che risiedevano nel monastero di Pbou. Vale la pena di ricordare che la fondazione dell’Ordine dei pacomiani avveniva più di un secolo prima che San Benedetto (480-547 d.C.) scrivesse la sua Regola.
L’ambiente monastico egiziano non appare dunque solo estremamente variegato, ma si dimostra anche molto vitale dal punto di vista della produttività letteraria. Non è un caso, del resto, che la letteratura copta originale nasca in tale contesto. La letteratura prodotta all’ombra dei monasteri non è solo una raccolta di racconti edificanti, basati sulle vicende, più o meno arricchite di elementi fantasiosi, di quei personaggi la cui vita era ritenuta un modello di spiritualità e moralità, ma ha anche una profonda valenza storica. Essa consente di comprendere la posizione presa dai monaci egiziani in occasione dei principali eventi che coinvolsero la cristianità, tra cui lo scisma post-calcedonense, che determinò una crisi profonda tra il patriarcato alessandrino e quello costantinopolitano.
Una figura straordinaria
L’esperienza pacomiana trovò sviluppo e maturazione nella straordinaria figura di Shenute, archimandrita del cosiddetto Monastero Bianco di Atripe, situato non lontano dalla città di Panopoli (Alto Egitto), con le cui opere il copto raggiunse finalmente il rango di lingua letteraria, cessando di essere semplicemente uno strumento di traduzione dal greco. Completamente e volutamente trascurato dalle fonti greche e latine, Shenute (348-465 d.C.) rimase sostanzialmente sconosciuto all’Occidente fino alla fine del XVIII secolo, quando alcuni frammenti delle sue opere, appartenuti alla collezione del cardinale Stefano Borgia, vennero studiati per la prima volta dall’egittologo e coptologo danese Jurgem Zoëga (1755-1809).
Nato da genitori cristiani nel villaggio di Shenalolet, nel Delta, Shenute vive una vita ultracentenaria, caratterizzata, già dall’infanzia, da numerosi eventi prodigiosi. Da un brano della Vita di Shenute, opera del suo successore Besa, si apprende infatti che il monaco sarebbe vissuto 118 anni.
In una sua omelia, scritta nell’anno del Concilio di Efeso (431 d.C.), egli afferma di «leggere continuamente il Vangelo», cioè di essere monaco da sessant’anni e di «annunciarlo», cioè di guidare una comunità come archimandrita, da quarantatré. È noto poi che prese parte al Concilio di Efeso, che ebbe rapporti epistolari con i patriarchi Timoteo e Dioscuro, che trattò con l’eretico Nestorio quando questi venne esiliato in Medio Egitto e che lasciò a Besa la guida delle sue comunità monastiche qualche anno prima di morire.
Divenuto monaco nel monastero di suo zio Pkjol, il cosiddetto Monastero Bianco (Deir el-Abiad), presto prese il posto di questi nella guida della comunità monastica, adattando la regola pacomiana, fino ad allora adottata, alle necessità della comunità che andava via via ampliandosi, fino a comprendere migliaia di monaci.
Del resto, nei suoi scritti, Shenute riconosce esplicitamente l’autorità spirituale di Pacomio, ma, al tempo stesso, ne prende le distanze dal punto di vista dogmatico. Dopo lo scisma di Calcedonia, infatti, i pacomiani perlopiú rimasero vicini alle posizioni della Chiesa di Costantinopoli, mentre gli shenutiani divennero il punto di riferimento della Chiesa piú propriamente copta, incarnando un ideale anti-intellettualistico, ispirato alla condotta dei primi anacoreti.
Saccheggi in biblioteca
Shenute fu, tra le molte altre cose, un autore estremamente prolifico. Purtroppo, però, la piena comprensione della sua opera letteraria è preclusa dallo stato insoddisfacente del lavoro di catalogazione e quindi di pubblicazione dei relativi manoscritti. Le opere di Shenute, infatti, erano gelosamente custodite nella biblioteca del Monastero Bianco che, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del successivo, fu saccheggiata da cercatori di tesori. I manoscritti vennero così smembrati in parti più o meno consistenti, attualmente conservate in una cinquantina di collezioni pubbliche e private di tutto il mondo.
I frammenti delle opere di Shenute rinvenuti in località lontane dal Monastero Bianco, e dunque appartenuti ad altre biblioteche, provengono da miscellanee poco curate, che sembrano essere state realizzate ricostruendo le opere di Shenute a memoria, e dunque sono meno attendibili.
Se la maggior parte dell’attività di Shenute era rivolta a indirizzare, correggere, incoraggiare e punire la vasta schiera di monaci posta sotto la sua autorità, soprattutto per ciò che riguardava la loro condotta morale, egli acquistò col tempo grande fama e autorità anche al di fuori del Monastero Bianco, divenendo un punto di riferimento per tutta la regione, sia per la popolazione che per i magistrati civili.
Parecchie opere ce lo mostrano alle prese coi problemi del suo tempo, come le carestie, in cui occorreva aiutare la popolazione a sopravvivere, o le razzie dei nomadi del deserto da cui, per quanto fosse possibile, occorreva proteggerla, utilizzando la struttura del monastero come luogo di difesa.
Un pastore coraggioso
Tra i gruppi di nomadi che terrorizzavano l’Egitto tardo-antico i più violenti erano sicuramente i Blemmi. Ma Shenute non era tipo da farsi intimidire neppure da loro, almeno a giudicare da un altro episodio narrato nella sua Vita: «Accadde una volta che i Blemmi vennero a nord e catturarono alcune persone della città e le fecero prigioniere con i loro animali. Poi andarono a sud con tutto quello che avevano preso e si stabilirono nel nomo di Psoi. Allora mio padre apa Shenute volle andare da loro per salvare i prigionieri che avevano catturato, passò il fiume verso est e quando essi lo videro tentarono di ucciderlo. Ma le loro mani divennero rigide e secche come legno e si disperarono per questa grande tragedia. La stessa cosa accadde a tutti gli altri fino a che (Shenute) arrivò presso il loro re. Quando questi capì che non avrebbe potuto contrastare il suo straordinario potere, si alzò e chiese: “Ti prego, guarisci le mani dei miei uomini!”. E allora Shenute fece il segno della croce su di essi e le loro mani vennero immediatamente sanate. Il re allora gli promise ogni genere di regalo, ma Shenute non accettò e si limitò a dire: “Restituiscimi gli uomini e tieni pure per te il resto del bottino”. E il re li lasciò andare via con lui. Passò il fiume verso ovest e li portò al monastero. Diede loro del denaro e li rimandò a casa, mentre rendevano grazie a Dio e al santo profeta apa Shenute».
Questioni stravaganti
Più volte, durante la sua vita, l’archimandrita si dimostrò una guida non solo spirituale, esercitando la difesa dei contadini contro i latifondisti prevaricatori, e contro le malversazioni dell’esercito. La sua autorità e il suo carisma furono tali che i magistrati romani gli fecero spesso visita e non esitarono a consultarlo su questioni di carattere pratico e gestionale, attendendo da lui insegnamenti morali riguardanti lo svolgimento dei loro doveri e ponendogli questioni di ogni tipo, anche assai stravaganti, come la misura del cielo e della terra.
Particolarmente dura fu la polemica di Shenute nei confronti dei sopravvissuti culti pagani, ancora radicati e diffusi: sono infatti numerosissimi i passi in cui egli combatte apertamente gli hellenes, intesi come pagani in genere, sia per il loro comportamento, sia per le loro dottrine. Questa polemica ebbe anche dei risvolti pratici, a volte brutali, che comportarono la distruzione di luoghi di culto e altre angherie. Questo aspetto dell’attività di Shenute è stato in passato fin troppo sottolineato, non tenendo sufficientemente conto del contesto di un’epoca nella quale questo genere di cose accadeva frequentemente, e violente rivendicazioni, persino a opera delle autorità civili o tra avverse comunità cristiane, erano all’ordine del giorno.
Shenute stesso si adoperò, probabilmente, per distruggere i testi eretici e apocrifi che ancora circolavano nel suo ambiente, e forse fu responsabile della dispersione degli ultimi gruppi gnosticizzanti rimasti in Alto Egitto nel V secolo. La sua attività contro tutte le eresie è del resto ben rappresentata dal racconto che narra della sua partecipazione al Concilio di Efeso. A causa della sua popolarità, infatti, Shenute fu scelto da Cirillo il Grande, patriarca di Alessandria, per accompagnarlo al Concilio del 431 d.C., il cui scopo era contrastare l’eresia di Nestorio: «Accadde una volta che i nostri padri santi si recarono al Sinodo per scomunicare l’empio Nestorio ed era presente il mio padre profeta apa Shenute con il Santo Cirillo arcivescovo di Alessandria. E dopo che entrarono nella chiesa e posero i troni e vi sedettero, posero un altro trono nel mezzo del sinedrio e vi posero sopra il santo tetraevangelio. E dopo che entrò l’empio Nestorio, con grande audacia e disprezzo e svergognatezza spostò i quattro evangeli santi e li mise per terra e sedette sul trono».
A colpi di Vangelo
«Il mio padre apa Shenute dopo che vide ciò che Nestorio aveva fatto, balzò su con giusta ira nel mezzo dei nostri santi padri, prese gli evangeli, li sollevò da terra e colpí nel petto quell’empio Nestorio, dicendo: “Vuoi che il Figlio di Dio sieda a terra e tu sieda sul trono?”.
Rispose l’empio Nestorio e disse a mio padre apa Shenute: “Che cosa hai a fare nel mezzo di questo Sinodo? Tu non sei sicuramente né un vescovo né un archimandrita e neppure un abate, ma sei (soltanto) un monaco.
” Rispose il nostro padre e disse a colui: “Dio ha voluto che io venissi in questo luogo per incolparti dei tuoi delitti e per mostrare gli inganni della tua empietà, perché tu rifiuti le sofferenze dell’unigenito Figlio di Dio, che Egli accettò per noi per guarirci dai nostri peccati, e Lui stesso ora ti punirà.” E subito quello cadde dal trono per terra e divenne indemoniato nel mezzo del Sinodo dei nostri Padri. Subito sorse il santo Cirillo, prese la testa del nostro padre apa Shenute, la baciò e prese il velo che gli stava al collo e lo pose sulla testa di apa Shenute e gli diede in mano il bastone e lo nominò archimandrita e tutti i partecipanti del Sinodo proclamarono: “Degno, degno, degno archimandrita!”».
Shenute ha dunque rappresentato un punto di riferimento per l’intera comunità cristiana del Medio Egitto, proponendosi come tramite tra il popolo e l’autorità istituzionale, fosse essa quella ecclesiastica o quella di governo. Egli ha piú volte affrontato e risolto sia problemi di carattere religioso, sia questioni di ordine giuridico e pratico, prestando soccorso in caso di carestie o di scorrerie di nomadi, risolvendo diverbi tra concittadini, difendendo i diritti dei contadini dalle fameliche mire dei grandi possidenti terrieri, frenando la violenza di un esercito ormai fuori controllo e organizzando missioni di distruzione di edifici pagani.
L’interesse che, in questi ultimi anni, si è concentrato sempre di piú, non solo sulla sua produzione letteraria, ampia e interessante, ma anche sull’organizzazione e la gestione dei suoi monasteri, agevola l’indagine del fenomeno del movimento monastico egiziano nella sua interezza. La vita nel monastero di Shenute doveva essere assai austera. Basti pensare che i novizi, dopo aver vissuto per un certo periodo fuori dal monastero, così da dar modo di verificare meglio la serietà della loro vocazione, per divenire monaci effettivi dovevano impegnarsi in una vera e propria dichiarazione di intenti (diatheke): «Io giuro solennemente davanti a Dio, e che le parole che ho pronunciato mi siano testimoni, che non contaminerò il mio corpo in alcun modo, non ruberò, non darò falsa testimonianza, non mentirò, non farò nulla di disonesto. Se trasgredirò ciò in cui mi sono impegnato, vedrò il Regno dei Cieli, ma non potrò entrarci. Dio, di fronte al quale mi sono impegnato, getterà la mia anima e il mio corpo nella Gehenna perché non ho prestato fede al mio impegno».
Ora et labora
I trasgressori venivano puniti con pene corporali e, nei casi più gravi, erano espulsi dal monastero. Una volta terminato il tempo riservato alle preghiere, molti erano i lavori in cui erano impiegati: oltre alla confezione di corde e cestini, sono attestate attività di calzoleria, lavorazione del pellame, rilegatura e copiatura di libri, sartoria, carpenteria, produzione di ceramica e, naturalmente, coltivazione dei campi.
E se un monaco, prima di divenire tale, aveva esercitato qualche mestiere o professione, si cercava di valorizzarne l’esperienza pregressa. Una certa attenzione era inoltre riservata alla formazione culturale, tanto che sia i monaci che le monache erano fortemente incoraggiati ad apprendere almeno i primi rudimenti di lettura e scrittura.
Quando, nel 385 d.C., Shenute divenne archimandrita del Monastero Bianco, questo era a capo di una federazione di tre congregazioni (synagoghé), comprendente, oltre al monastero maggiore, un monastero femminile e un monastero maschile di piú piccole dimensioni, per un totale di diverse migliaia di monaci e monache. Ogni congregazione era articolata in dormitori detti «case», ciascuna diretta da un proprio abate. A capo della federazione era però Shenute, detto «capo di queste congregazioni», il quale viveva in un eremo a una certa distanza dal Monastero Bianco.
A Shenute si riconosceva il diritto di avere l’ultima parola su tutto, sebbene egli stesso spesso traesse spunto dalle regole morali e comportamentali dei «padri», cioè degli archimandriti che lo avevano preceduto. Attraverso i nove volumi dei Canoni, una serie di precetti scritti dallo stesso Shenute, possiamo seguire con precisione le scelte che, di volta in volta, l’archimandrita operava di fronte alle situazioni contingenti. I Canoni infatti, a differenza dalla Regola di Pacomio, e anche da quella di Benedetto, non costituivano norme generali, bensì una raccolta di comunicazioni personali fatte da Shenute ai suoi monaci e nate da situazioni ed eventi specifici.
Si apprende così che la gestione del cibo era sentita come un punto focale per la morale della vita comunitaria e, di certo, non si può dire che fosse prodiga. Lo stesso Shenute, del resto, «non mangiava fino a che il sole non fosse tramontato» e «il suo cibo erano pane e sale. Per questa ragione il suo corpo era disidratato e la pelle molto sottile e attaccata alle ossa».
Ogni congregazione possedeva un orto, coltivato da monaci. Il cibo che non poteva essere prodotto all’interno del monastero veniva acquistato sotto il controllo di Shenute in persona e depositato nel dispensario. I pasti caldi venivano serviti in tre luoghi diversi: il refettorio, l’infermeria e il cancello principale del monastero. I primi due erano riservati rispettivamente ai monaci in salute e a quelli malati, mentre il cancello serviva a sfamare visitatori, viandanti e rifugiati. In aggiunta a ciò, Shenute faceva mandare razioni di cibo ai monaci che erano fuori per portare avanti qualche affare del convento.
Un pasto al giorno
Il pranzo era fissato per mezzogiorno, tempo in cui tutti dovevano lasciare le proprie incombenze per recarsi al refettorio e consumare l’unico pasto della giornata. L’appuntamento era ricordato da un gong, il cui suono era cosí potente da essere sentito anche nelle campagne. A nessuno era consentito mangiare in disparte o in un momento diverso della giornata. Le porzioni erano fisse e inalterabili e il menu non certo elaborato, poiché la dieta quotidiana di un monaco shenutiano si componeva essenzialmente di pane e verdure cotte; i cuochi, inoltre, non dovevano essere propriamente chef provetti…: commenti del tipo «è salato», «è insipido», «è bruciato» ricorrono frequentemente negli esempi di deprecabili lamentele citate e stigmatizzate nei Canoni di Shenute.
Tra gli alimenti espressamente vietati erano il latte e i formaggi, le uova, il pesce affumicato e arrostito e le acciughe. Chi era impegnato in lavori particolarmente faticosi poteva chiedere al dispensario pane da consumare durante altri momenti della giornata, ma non più di tre pezzi al giorno, poiché era proibito accumulare o nascondere cibarie.
Del resto anche la Regola di Benedetto recita: «Il monaco non si lasci mai cogliere dall’ingordigia. Nulla infatti è così sconveniente a ogni cristiano quanto l’eccesso del cibo» (capitolo 39) e ancora, in riferimento ai trasgressori che tentavano di nascondere del cibo nella propria cella, «i letti devono poi essere di sovente ispezionati dall’abate, chissà che non vi si trovi qualcosa di proprietà privata».
Un regime alimentare tanto rigido, a cui si aggiungevano i normali periodi di digiuno, causò piú di una protesta, ma, soprattutto, fece aguzzare l’ingegno dei monaci: sono noti casi di chi si faceva portare segretamente cibo dai propri familiari in visita al monastero, di chi si fingeva malato per usufruire della refezione dell’infermeria, che prevedeva due pasti al giorno comprensivi di carne e vino, e persino di chi si ridusse a rubare il pane e il vino per la messa. Tali casi ci sono noti perché anche Shenute ne venne a conoscenza, condannandoli nelle sue omelie. Non è noto invece cosa accadde agli incauti trasgressori, ma è facile immaginare che non l’abbiano passata liscia!
Il posto nella storia
Questo personaggio dal pugno di ferro, dal forte carisma e dallo spiccato spirito imprenditoriale, tanto da riuscire a fare del Monastero Bianco una vera e propria potenza economica, ha pagato il suo essere «copto», ossia l’essersi allineato con la posizione anticalcedonense del patriarcato alessandrino, con il totale oblio da parte delle fonti greche e latine, che ne hanno decretato una vera e propria damnatio memoriae. Ma il deserto ha restituito ciò che gli uomini hanno tentato di distruggere e attraverso i frammenti delle sue opere, tramandate in copto e in arabo, l’eccezionalità della figura dell’archimandrita del Monastero Bianco ha potuto lentamente riemergere, fino a stagliarsi come la principale personalità letteraria della produzione in lingua copta.
In fondo non stupisce che, nonostante tutto, l’archimandrita del Monastero Bianco sia riuscito a riprendersi il posto che gli spetta nella storia egiziana. La sua tenacia è del resto ben espressa in uno dei più gustosi episodi della Vita, emblematico nella sua ingenuità: mentre è in preghiera nel deserto, Shenute viene disturbato dal diavolo,

Autore: Paola Buzi

Fonte: http://www.archeo.it, n. 313, marzo 2011

Edoardo ROTUNNO. Ranverso e… oltre (libro)

Note:
L’Ordine degli Antoniani si sviluppò rapidamente già nel XII secolo, dando vita a numerose dipendenze, tant’è che la presenza degli Antoniani in Piemonte è attestata intorno all’anno 1186 nella città di Susa, e successivamente a Ranverso, ove si insediarono in un complesso già esistente. Non tutti gli studiosi concordano sulla data della fondazione di Ranverso. Alcuni, e tra di loro Placido Bacco, fanno risalire la nascita del nucleo originario al conte Umberto III di Savoia, intorno all’anno 1098. Siamo negli anni in cui in questa zona, tra Avigliana e Rivoli, imperversa un’epidemia di “fuoco sacro” ed è verosimile la storia che vede una marchesa di Avigliana impegnata a chiedere al marito, di recente tornato da una crociata, di intercedere presso il gran Maestro dell’Ordine, Gastone dei Gastoni, per ottenere l’invio di frati infermieri Antoniani per fondare un Ospedale che alleviasse le sofferenze della popolazione residente, in grandissima parte formata da poveri e miserabili contadini. Per la realizzazione venne scelta una regione detta Rivus inversus, perché in tale luogo scorreva un rio denominato Rio Inverso, dal termine piemontese “invers”, che equivale a dire situato a nord, così come il complesso degli edifici è addossato a una piccola collina esposta al nord, da cui derivò la dizione di Sant’Antonio d’Inverso, diventata successivamente Ranverso.

Sommario: Antonio e l’origine dell’Ordine degli Ospitalieri Antoniani; Sant’Antonio di Ranverso; l’Ospedale; la chiesa: esterno; la chiesa: interno; il chiostro; la cappella della Crocefissione e il coro d’inverno dei frati; il convento; degrado, rifacimenti e antichi restauri; ultimi restauri a Ranverso; scheda di approfondimento 1: Atanasio; scheda di approfondimento 2: la via Francigena; scheda di approfondimento 3: Cabreo; scheda di approfondimento 4: l’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme; scheda di approfondimento 5: l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro; scheda di approfondimento 6: il gotico internazionale; scheda di approfondimento 7: Giacomo Jaquerio; scheda di approfondimento 8: Defendente Ferrari; Appendice; Glossario; Bibliografia.

Edoardo Rotunno Laureato in Lettere presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino. Già dipendente dell’Ordine Mauriziano di Torino dal 1976 al 2004, Dirigente del Servizio Patrimonio Storico Artistico e Responsabile del Settore Restauri e Riconversioni Patrimoniali. Attualmente è Dirigente Amm.vo dell’ASL TO1.
Ha pubblicato nel 2011, per L’Artistica Editrice di Savigliano, L’Abbazia di Staffarda. Inoltre ha scritto numerosi saggi per il Periodico Mauriziano 2000, inerenti i Beni Artistici della Fondazione Ordine Mauriziano.
Esperto di Egittologia, è conferenziere sul tema e sugli Ordini Monastici Gerosolimitani.

Dati tecnici Autore: Edoardo Rotunno Editore: Mediares, via Gioberti, 80/d – 10128 Torino Tel. 0115806363 – Fax 0115808561 www.mediares.to.it – e-mail: mediares@mediares.to.it I edizione: Gennaio 2015 ISBN 9788899282004 F.to 15×21 – Pagine: 144 – Prezzo: Euro 10,00 Per acquisti rivolgersi all’editore.

Il falò di Sant’Antonio e la credenza popolare.

Il 17 gennaio il calendario cristiano (Gregoriano) ha festeggiato Sant’Antonio Abate, ispiratore del monachesimo occidentale, uno dei santi più venerati per le sue battaglie contro i demoni. Antonio Abate (santo), è uno dei fondatori del monachesimo, perciò detto padre dei monaci (era nato presso Eraclopoli, Medio Egitto, nel 251 d.C. circa e morto presso Afroditopoli nel 356 d.C.).
E’ proprio Sant’Atanasio che ne racconta l’opera nella “Vita Antonii” descrivendo il luogo della sua vita, nelle lande desolate della Tebaide, e dove si era ritirato dedicandosi alla cura del proprio piccolo orto. La tradizione cristiana vuole che Sant’Antonio Abate venga rappresentato nell’iconografia e nella letteratura come il protettore degli animali.
Secondo la credenza popolare, il diavolo s’incarnerebbe nel maiale, così le immagini religiose del Santo con accanto un porco sottomesso, hanno finito per farlo diventare anche il protettore di tutto il bestiame.
Sant’Antonio si celebra sia con una benedizione agli animali impartita sul sagrato delle chiese, sia accendendo grandi falò per purificare il terreno da sterpi e foglie. Per la devozione popolare questo santo, patrono del focolare domestico perché capace di sottomettere fiamme e demoni, è ritenuto pure in grado di far guarire herpes dolorosissimi come il “fuoco di Sant’Antonio”.
Nell’iconografia lo si raffigura sempre con un porcello munito di campanella a fianco del santo egiziano: e la leggenda vuole che il porcellino sia stato “complice“ nell’aiutare Sant’Antonio a rubare il fuoco degli inferi per donarlo al popolo, che soffriva il freddo.
La storia, invece, ricorda che i canonici di Sant’Antonio avevano ottenuto il permesso di allevare i maiali all’interno de centri abitati: il grasso di maiale era infatti utilizzato come emolliente per le piaghe provocate dal “fuoco di S. Antonio”, che l’ordine curava negli hospitii od ospedali che erano deputati a gestire.
E fin qui le radici cristiane della festa, ma ancor prima se vogliamo riscoprirne le tradizioni, la festa traeva origini dal paganesimo.
Se vogliamo scavare nel passato, che si perde nella notte dei tempi, si dovrebbe sapere, che buona parte delle feste cristiane si sono sovrapposte agli antichi culti pagani ed ogni rito che vede l’accensione di un fuoco si richiama alle usanze celtiche. Anche dopo millenni di adorazione dell’anacoreta, si può risalire con certezza alla matrice celtica del falò.
Anticamente, in tutta l’Europa, il periodo del falò coincide con quello durante il quale venivano accesi i fuochi in onore del dio Lug (dal quale tra l’altro deriva il nome della città di Lugano), la divinità più importante nel pantheon celtico, quella della luce. Divinità protettrice anche di animali come il cinghiale ed il maiale.
Non a caso questa caratteristica è stata trasferita sul santo, il quale è protettore degli animali domestici ed ogni 17 gennaio avviene, il giorno dopo il falò, la benedizione degli animali. Anche per questo legame il santo è detto “Sant’Antoni dul purscell”.
La festa inizia la sera del 16 di gennaio dove “la pira” (Falò) viene accesa, mentre il giorno 17 è la giornata vera e propria di festeggiamenti con la benedizione degli animali nelle chiese.  La storia della festa e la tradizione inoltre, vuole che nel Falo’ vengano gettati tra le fiamme i bigliettini, con scritto il proprio desiderio (“Sant’Antonio dalla barba bianca fammi trovare quel che mi manca”). Con la speranza che ogni lettore trovi quello che manca ovvero che i propri desideri si realizzino, auguriamo a tutti che detta festa continui sempre per come ce la ricordiamo, e rimanga sempre nei nostri cuori.

Autore: Libero Sangiorgio

*In collaborazione con http://www.insorgente.com

Fonte: http://www.lindipendenza.com, 20 gen 2013

Michele PANE, “A fòcara”

‘A focara è una delle poesie più famose di Michele Pane, pubblicata per la prima volta in “Viole e ortiche” nel 1906.
Ma quanti sanno esattamente che cos’è la fòcara?
Innanzitutto, ricordiamo che la parola si pronuncia con la  f  iniziale aspirata come la “c” toscana di casa o la h inglese di home.
Questa particolare pronuncia, oggetto nel passato di molte discussioni su come si debba tradurre nella scrittura, ha spesso portato al grave errore di inserire una h dopo la  f  (fhocara) o addirittura di usare la lettera h al posto della f.
Questi modi errati di scrivere erano stati già trattati dal prof. Luigi Accattatis nella prefazione al suo famoso Vocabolario del dialetto calabrese e ribaditi nell’appendice a Viole e ortiche (1906) in cui Michele Pane pubblica una nota dell’Accattatis sulla sua poesia. Le parole di Accattatis sono esplicite: «Il delirio di alcuni bravi scrittori calabresi è arrivato fino al punto di scrivere huocu, hidile, hocara, ecc. per rendere il suono aspirato che la labio dentale f  ha in Panettieri ed in altri paesi del cosentino, senza nè meno avvertire i lettori che quella h iniziale sta in sostituzione della lettera f, onde è a leggersi fuocu, fidile, fòcara.» (vedi G. Musolino, Michele Pane. La vita, pp. 77-78).

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