Già prima dell’insediamento dei monaci cistercensi, il luogo era stato abitato dai Benedettini che vi avevano costruito un monastero con il titolo di santo Stefano Protomartire, dove aveva dimorato anche Gregorio IV prima dell’827, anno della sua elezione al papato.
In seguito, probabilmente verso l’anno mille, il monastero subì quella ristrutturazione ed ampliamento, di cui ancor oggi rimangono, ben conservati, i tre lati romanici del chiostro. Qualche storico affaccia l’ipotesi che i Benedettini si siano insediati sul posto ai primordi dell’Ordine; vi sarebbero stati attratti dall’ambizioso disegno di bonificare la zona, che offriva tanto spazio al loro ideale dell’ora et labora, e dal desiderio di tenere in vita la tenue organizzazione di vita sociale che ancora vi fioriva, attestata ancor oggi dai ruderi di qualche villa romana – persino nel giardino del chiostro è emerso, durante gli scavi di sondaggio, un peristilio di villa romana – e da quelli, più consistenti e ancor oggi visibili, di un complesso termale prospiciente la chiesa.
Nel terzo decennio del secolo XII, durante lo scisma di Anacleto II, quando Bernardo di Clairvaux, con impegno infaticabile e con voce profetica, si adoperò per il riconoscimento della legittimità di Innocenzo II, l’abbazia fu incorporata nell’Ordine Cistercense come figlia diretta di Hautecombe, nella ramificazione di Clairvaux.
Poiché l’abbazia giaceva in un luogo acquitrinoso, i Cistercensi – che sono passati alla storia con la connotazione di monaci dissodatori e bonificatori e che nei limiti del possibile perseguivano la conduzione diretta dei loro propri possedimenti – iniziarono una capillare opera di bonifica convogliando le acque paludose nel vicino fiume Amaseno.
Da questo impulso di rinascita spirituale – sociale – economica deriva, secondo la tradizione tipicamente cistercense, la nuova denominazione, Fossa Nuova, che ha un’allusione trasparente alla vitalità nuova.
I monaci cistercensi ristrutturarono gli ambienti del monastero finalizzandoli alle loro particolari esigenze di vita; li trasformarono secondo i canoni spirituali ed artistici propri dell’Ordine, ed aggiunsero al titolo di Santo Stefano anche quello di Santa Maria, perché gli Statuti dell’Ordine prescrivevano che tutte le loro chiese fossero dedicate a Maria Regina del Cielo.
La chiesa di Fossanova, così come appare oggi, fu iniziata nel 1163 – ma alcuni storici datano l’inizio al 1170, altri ancora al 1187 – secondo un impianto più razionale e funzionale, proprio dell’Ordine e secondo un gusto nuovo che si andava diffondendo nel nord Europa, soprattutto in Francia, dove l’Ordine era sorto. La costruzione della chiesa si protrasse per circa 45 anni – un lungo periodo dovuto ad una forzata sosta negli ultimi decenni del XII secolo causata, probabilmente, dagli attriti tra impero e comuni, in cui tutte le abbazie cistercensi furono coinvolte – e fu definitivamente sistemata, con i rosoni, solo intorno al 1300.
Nel 1208, sotto l’abate Stefano da Ceccano (1205-1212), in seguito eletto cardinale (1212), l’altare della nuova chiesa, secondo la testimonianza del Chronicon Fossae Novae, venne solennemente consacrato da Innocenzo III. Contemporaneamente alla chiesa e subito dopo, tra il 1170 e il 1250, anche gli altri locali della vecchia abbazia furono ristrutturati, sia intorno sia nelle adiacenze del chiostro.
Sorsero così, in probabile ordine di tempo, la foresteria, il refettorio e gli edifici attigui, la sala capitolare, il lato sud del chiostro, i dormitori dei monaci e dei fratelli conversi, le stalle e i magazzini, tutti secondo il severo stile di transizione come la chiesa, ma con varianti più evolute nella sala capitolare e nel lato sud est del chiostro. Invariati, invece, sono stati lasciati gli altri tre lati del chiostro, che risalgono intorno al mille.
L’influsso di Fossanova – senza misconoscere quello di altre abbazie cistercensi vicine altrettanto famose e vitali, quali Casamari, Le Tre Fontane a Roma – si estese in una discreta area geografica che comprendeva i duomi di Priverno e di Terracina con i loro relativi palazzi comunali, quello di Sezze, le chiese di Santa Maria Maggiore in Ferentino, di San Lorenzo in Amaseno, le collegiate di Santa Maria in Sermoneta, di Sant’Antonio in Priverno, di San Michele Arcangelo in Sonnino, di San Domenico e dell’Annunciazione in Terracina.
Già sul finire del XIII secolo, però, e soprattutto dall’inizio del XIV secolo, iniziò per Fossanova un rallentamento di vitalità e di incidenza storica, denotato dal venir meno di quei fattori che costituiscono il tessuto sociale di ogni istituzione e motivo da cause molteplici e interdipendenti.
La Santa Sede vegliava, tuttavia, sulla traversia della vetusta abbazia laziale. Tra 1725 e il 1729 il monastero fu onorato dalla visita di numerosi prelati e dello stesso Benedetto XIII. Nel 1780 in esso fu ospite Pio VI, il pontefice che aveva promosso la bonifica della pianura pontina, il quale, spinto anche dal desiderio di venerare alcune reliquie di san Tommaso che nel frattempo erano state rinvenute (1772) dall’abate Pio Piermartini, approfittò dell’occasione per rendersi personalmente conto dei problemi da cui era travagliata l’abbazia. Il papa, per risollevare la situazione, ne affidò il governo, nel 1795, all’abate di Casamari, padre Romualdo Pirelli, il quale si rese benemerito anche verso la popolazione per averla rifornita di un pozzo, ancora oggi efficiente.
La ripresa, però, ebbe breve durata, perché le truppe francesi di Napoleone, nella prima discesa in Italia, raggiunsero anche Fossanova nel 1798, ne saccheggiarono il monastero, malmenarono e misero in fuga i pochi religiosi che trovarono rifugio nei pressi di San Domenico in Sora, decretarono la soppressione dell’abbazia per incamerarne i beni. Nello stato pietoso in cui era ridotta, l’abbazia, senza porte ed infissi, era esposta all’arbitro di tutti, quando l’inattesa sconfitta delle truppe francesi da parte di Ferdinando IV di Napoli, riaccese le speranze per il ritorno dei monaci. Questi infatti rioccuparono il monastero per il solerte interessamento del francescano conventuale, padre Bonaventura Trulli che, nominato visitatore dell’abbazia di Casamari, riuscì ad ottenere, con l’appoggio del governatore napoletano, anche la restituzione dei beni.
I religiosi rimasero nell’abbazia ancora alcuni anni, per abbandonarla definitivamente quando i napoleonici, essendovi tornati nel 1806, soppressero di nuovo il monastero e la commenda, alienandone ancora i beni. Non si salvò nulla, neppure l’archivio che ci avrebbe potuto fornire tante notizie sulla storia dell’abbazia. Si sa solo che numerosi cimeli, libri, opere d’arte, quadri, oggetti sacri furono depositati negli archivi privernati del Comune e della Cattedrale; restituiti poi all’abbazia nel 1827 quando questa fu affidata ai Padri Certosini, oggi risultano introvabili, forse perché andati irrimediabilmente perduti a causa delle avverse vicende politiche che per tutto l’800 hanno sconvolto la vita dei monasteri.
Dopo la caduta di Napoleone, né i Cistercensi dell’Antica Osservanza, né i Cistercensi della Stretta Osservanza (Trappisti) tornarono più nell’abbazia che, nell’incuria generale, fu trasformata in dimora di bufali fino a quando Leone XII non la riscattò a proprie spese per affidarla ai Padri Certosini di Trisulti. I Padri Certosini, nonostante le assenze del 1830, del 1848, del 1867 e l’altro breve allontanamento del 1873, dovuto alle leggi di soppressione degli istituti religiosi, fecero ritorno nell’abbazia nel 1874, quando questa fu dichiarata monumento nazionale dall’on. Veglioni, ministro dell’allora governo Minchetti. Durante la loro presenza, i Padri Certosini, con mezzi propri, con il sovvenzionamento di Leone XII e poi del Governo Italiano, curarono il restauro dell’abbazia, senza tuttavia la possibilità di riportarla all’antico splendore. Negli anni seguenti alla soppressione, il Governo Italiano vendette l’abbazia, insieme ai beni ancora rimasti, il principe Borghese il quale vi costruì, attorno 1911, le abitazioni che formano il borgo, oggi quasi disabitato. I Padri Certosini restarono nell’abbazia fino al 1926, quando l’abbandonarono definitivamente a causa del clima e di altre comprensibili difficoltà. Ai Padri Certosini subentrarono i religiosi di don Guanella che vi rimasero soltanto negli anni 1926 – 1932; di essi la popolazione ricorda ancora il grande disagio in cui vivevano. Nel 1932 il solo monastero – escluse le antiche pertinenze – è passato di nuovo, e gradualmente, allo Stato Italiano dagli ultimi proprietari.
Subito dopo, con trattative condotte dal 1932 al 1936, l’abbazia è stata affidata ai Frati Minori Conventuali, per l’interessamento del vescovo di Terracina-Sezze-Priverno, mons. Pio Leonardo Navarra, che riponeva in loro molte speranze per l’assistenza spirituale alle popolazioni, soprattutto dopo la bonifica pontina. I Frati Minori Conventuali si sono molto interessati presso le autorità governative per i dovuti restauri, i quali, anche se insufficienti e fatti frettolosamente hanno consentito alla Comunità di ospitare un numeroso collegio di aspiranti al sacerdozio. Soppresso, in seguito, il seminario per mancanza di aspiranti, i religiosi si sono dedicati alla pastorale parrocchiale – la chiesa è stata eretta a parrocchia nel 1950 – e all’accoglienza dei numerosi turisti, ospitando anche nei vasti locali del monastero manifestazioni religiose e culturali. Ultimamente un avvenimento straordinario ha riportato, per un giorno almeno, l’abbazia alla celebrità storica: la visita di Sua Santità Paolo VI, che ha voluto onorare nel luogo la memoria del dottore angelico nel VII centenario della sua morte (1274-1974). L’accoglienza, ben curata dai religiosi conventuali, ha richiamato sul posto una grande folla di fedeli, accorsi da tutti i paesi della provincia di Latina.
L’avvenimento è ricordato da una lastra marmorea posta nelle vicinanze del posto in cui ha preso terra l’elicottero con il Santo Padre.
Monastero
L’abbazia di Fossanova è sita in un avvallamento ai piedi dei monti Lepini, tra Priverno e Sonnino. Nella sua maestosa eleganza e nella solida struttura, l’abbazia rappresenta un vero gioiello di architettura cistercense, prototipo di un gusto nuovo, trapiantato dalla Borgogna nell’Italia centro – meridionale, manifesto di una spiritualità nuova.
Chiesa 
La facciata è caratterizzata da un movimento di linee, dovuto alla presenza di un ricco portale, di uno splendido rosone, di un oculo ottagonale in alto, di due timpani che sembrano richiamarsi l’un l’altro, di contrafforti e di cornici. Con il mosaico della lunetta del portale, con i vari giochi di luce e di ombre, dovuti alle sporgenze e rientranze, con il tipico pigmento della pietra nuda, essa tradisce un intento pittorico che è assente nell’interno della chiesa. Due zone divise orizzontalmente nella facciata da un cornicione: in quella superiore fa bella mostra il grandioso rosone dalla forte strombatura, ricco di colonnine che, diramandosi da un cerchio lobato centrale, si riannodano ad archetti gotici che richiamano lo stile della chiesa. Più in alto, un elegante timpano, centrato da un occhio ottagonale che ritroviamo anche nei timpani del transetto e dell’abside, con doppio ordine de dentelli che si ripetono ai lati, guida l’occhio per tutto il perimetro della cornice all’ammirazione del gioco tra i pieni a i vuoti della massa, all’alternanza tra i robusti contrafforti e le rientranti monofore a tutto sesto. Due pilastri delimitano l’ampiezza della facciata, quasi sorretta lateralmente dalla sagoma delle due navi laterali che contengono e danno slancio, in una struttura salda, armoniosa ed equilibrata, alla navata principale. Dove sembra che la robustezza esterna della chiesa ceda all’eleganza, è nello slanciato tiburio che nelle chiese cistercensi, prive di torre campanaria laterale, tiene il posto del campanile.
Come appare ora, ha pianta ottagonale (è la figura che ritroviamo spesso nei vari occhi e nel rosone dell’abside), sormonta il punto centrale del transetto e forma quasi la chiave di volta dove vanno a confluire i costoloni, unici nella chiesa, della crociera mediana, come si vedrà meglio in interno. Consta di due sovrapposti, divisi da cornici con dentelli, trapunti in ogni lato dell’ottagono da una bifora a sesto acuto con colonnine binate. Lo stesso schema si ripete nel lanternino superiore, reso più agile dalla croce che si staglia nel cielo.
Lo slancio verticale del tiburio, della lanterna e della croce, risente già del nuovo gusto che si andava rapidamente affermando in tutta l’Europa, il barocco. Se qui il barocco sembra fondersi con il gotico, non è da meravigliarsi, sia perché i restauratori vivevano in pieno clima barocco, sia perché questo stile è visto da alcuni – per alcuni versi, si intende, e giustamente – come una lontana derivazione del gotico. Il tiburio spezza, in qualche modo, l’armonia di tutto il complesso, anche se con i recenti restauri ha acquisito una tinta di civettuola gaiezza. La chiesa, adagiata in un avvallamento, si presenta al visitatore nell’incanto del suo splendore.
L’entrata è costituita, attualmente, da un portale a sesto acuto profondo con tre archi concentrici e modanati, sorretti da altrettante colonnine con capitelli sfarzosi; il tutto è sormontato da un timpano, compreso nel rilievo appena accennato di un arco a sesto acuto, ed è illeggiadrito dalla lunetta che, nell’incurvatura degli archi, accoglie una serie di colonnine e di archetti a petali che si espandono a ventaglio, e da pregiate decorazioni musive di probabile attribuzione cosmatesca. Dal mosaico, certamente sovrapposto in pieno secolo XII, è rimasta coperta l’iscrizione: “Fridericus Imperator semper augustus hoc opus fieri fecit”. Il Barbarossa dunque ha contribuito a proprie spese alla costruzione del portale per cui monaci, a titolo di riconoscenza, hanno sovrapposto al rosone un lembo litico di corona imperiale.
Il visitatore, intanto, dopo aver oltrepassato il portale, si ritrova in un interno grandioso e monumentale, ricco di spazio e di luce, che si riannoda, per pianta e per costruzione, al tipo comune della basilica cristiana, privo tuttavia dell’arco di trionfo, del catino, delle decorazioni e degli stucchi. Sono presenti, invece, le grandi aree rettangolari allungate che formano le tre navate di cui due, quelle laterali, notevolmente più basse e ridotte rispetto a quella centrale.
La navata centrale è spezzata dal transetto trasversale con cui si dispone in forma di croce latina. Al di là del transetto, essa termina in una semplicissima abside quadrata, secondo lo stile cistercense, abbellita solo da un rosone lobato in alto e da tre monofore con alabastro in basso. Questa prima zona della chiesa anticamente era occupata dal coro dei fratelli conversi. Vi si accedeva dalla porta che si vede a destra, detta appunto porta dei conversi, la quale osservata dall’esterno del passaggio, si presenta a tutto tondo come quasi tutte le porte dei monasteri cistercensi, movimentata in alto da una bella croce con elaborazioni ornamentali. Sul pavimento, quasi al centro della chiesa, una pietra tombale copre il vano riservato alla sepoltura dei religiosi dopo che il cimitero monastico non fu più utilizzato.
Non sfugge l’effetto luminoso che piove dalle numerose monofore fortemente strombate, ravvivato dall’aureo pigmento delle pareti nude, che manifestano la bravura dei lapicidi.
L’assenza di motivi pittorici e ornamentali dimostra come fosse ancora forte la tendenza costruttiva che si riallacciava al romanico ed evidenzia anche la felice simbiosi, l’equilibrio classico, tra la volumetria e armoniosa di forza e di grazia ed esprime lo sforzo dell’uomo che, nello slancio verso l’alto, non rinnega ma trasumana la materia. Un leggero verticalismo traspare nei numerosi archi ogivali dal taglio quadrato e nelle agili colonnine pensili che, sporgendo dai robusti pilastri, sorreggono le arcate della volta ripartita a crociera dalle nervature appena accennate. Solo la crociera centrale, all’incrocio tra la navata centrale e il transetto, è evidenziata da costoloni molto pronunciati. Sul marcapiano, in corrispondenza della sommità degli archi longitudinali a doppia ghiera che immettono nelle navate laterali, sono realizzate delle nicchie che hanno l’evidente scopo di liberare le pareti da un peso eccessivo. Il cornicino litico che scorre sopra gli archi laterali spartisce la parete e frena la spinta ascensionale e, a guisa di nastro, riannoda la parte superiore dei pilastri. Disposto ad altezza disuguale, secondo i tratti di perimetro della chiesa, lascia supporre che il livellamento del pavimento sia opera posteriore. Nel lato est del transetto, le quattro caratteristiche cappelle, contenute dentro il muro di fondo, affiancano la grande abside rettangolare che contorna l’altare maggiore in pietra bianca, su cui le tre monofore e il rosone lobato retrostanti fanno spiovere una luce attutita, quasi metafisica, la quale contrasta la cascata di luce proiettata dal rosone della facciata. La volta della campata d’incrocio, su cui si innesta il tiburio, è caratterizzata da una calotta vitrea, dai cui grossi fori penzolano le funi delle campane.
In fondo al lato destro del transetto, sotto tre eleganti monofore, si apre la porta della sacrestia e scende la scala che mette in comunicazione il dormitorio dei monaci con la chiesa.
In fondo al lato sinistro, sotto un affresco molto deteriorato, si apre la porta dei morti che immetteva nell’antico cimitero monastico dove riposano insieme, nell’attesa della beata risurrezione, coloro che insieme sono vissuti nel servizio del Signore.
Dalla disposizione, perfino dalla denominazione degli elementi e degli ambienti, risalta l’estrema funzionalità di una costruzione cistercense, il cui impianto è in funzione di vita, la cui struttura è un riflesso di spiritualità. La razionalità a servizio della funzionalità rispecchia, nella semplicità spoglia ed euristicamente bene articolata degli elementi, la bellezza, senza infingimenti e camuffamenti, di un serena comunione con gli altri.
L’affresco sulla porta dei morti e quelli di cui restano le tracce nel lato sinistro dell’altare maggiore (san Tommaso con in mano l’ostensorio e posta di sotto, l’iscrizione “hic requievit – corpus Divinith – me aquinat – is A.D.1274” ), sono i soli realizzati nella chiesa, mentre gli altri – il crocifisso, le teste probabilmente della Vergine e di san Giovanni Battista nell’ultima cappella del braccio sinistro del transetto, il quadro della Madonna delle Grazie sull’altare della prima cappella del lato sinistro – sono stati trasferiti dai locali interni dell’abbazia.
Tutti vengono attribuiti a pittori locali, operanti anche a Priverno, tra il XIV e il XV secolo.
Ad epoca più recente, invece, appartengono gli affreschi, ridotti in stato precario, della cappella della Madonna delle Grazie, e di quella in fondo al lato destro del transetto. E’ facile riconoscere in essi i canoni della pittura sei – settecentesca, che mal si intona all’austera bellezza della chiesa. Fra questo un affresco raffigurante Sant’Antonio Abate.
La chiesa traduce, architettonicamente, il senso di ordine, di disciplina, di semplicità, di austerità e di elevazione spirituale nella vita monastica. Vi si coglie un’integrazione perfetta tra struttura architettonica e spiritualità monastica, la concretizzazione dell’ideale di san Bernardo, cha ha dettato le norme per la strutturazione razionale degli edifici – la pianta bernardina – perché risultassero più adatti alla crescita interiore dei monaci.
(Testo tratto dalla guida “Abbazia di Fossanova” di Angelo Vari)
Link: http://www.abbaziadifossanova.it
Rilevatore: Feliciano Della Mora
Data ultima verifica sul campo: 4/01/2014